Ogni azienda che decida di usare i social per fare autopromozione ha sempre lo stesso timore: che le sue pagine vengano inondate dai commenti negativi. Aspre critiche che non sono necessariamente motivate da fatti accaduti o da incomprensioni e problemi reali con i clienti. Chiunque frequenti la rete, o abbia letto di sfuggita i commenti ai tweet e ai post sui blog, è incappato almeno una volta nel fenomeno degli hater.

Ma chi sono “coloro che odiano”? Questi individui intervengono nelle discussioni più disparate su brand, prodotti, personaggi pubblici o eventi, per parlarne male in modo insistente e ripetitivo.

Il passaparola? Può essere positivo o negativo

Oggi il passaparola si è spostato online e la maggioranza delle persone sceglie di affidarsi a un prodotto o a un servizio sulla base delle opinioni altrui. È normale temere i commenti negativi e denigratori. Disturbano l’advocacy marketing: quella strategia che trasforma i clienti in testimonial spontanei e li spinge a promuovere di propria volontà la qualità e l’affidabilità di un marchio. Anche perché, quando alcuni hater prendono la parola, lo fanno seguendo schemi e meccanismi ben precisi, costruiti ad arte per catalizzare l’attenzione degli internauti e fomentare sospetto e sfiducia. Se sui profili social di un’azienda qualcuno comincia a sparlare, aspettarsi un danno di immagine è naturale. Ma ci sono valide ragioni per cui si può fare un profondo respiro e affrontare gli hater senza preoccuparsi (troppo).

Un male necessario

Secondo lo schema elaborato dall’esperto di business strategy Frederick Reichheld per misurare la brand advocacy, ovvero l’azione di segnalare e consigliare un marchio, esistono tre tipologie di clienti.

  • I promotori, che raccomandano il brand
  • I passivi, che tendono a essere neutrali
  • I detrattori, che difficilmente consiglierebbero il brand

In questo quadro sarebbe possibile misurare la brand advocacy attraverso il Net Promoter Score, un indice rappresentato dalla percentuale di promotori meno la percentuale di detrattori. I vantaggi del passaparola positivo, in questa tipologia di analisi, verrebbero ridotti direttamente dal passaparola negativo. Ma c’è almeno una voce importante che la pensa diversamente.

Secondo Philip Kotler, considerato il padre del marketing moderno, senza l’esistenza di un’advocacy negativa accanto a quella positiva le conversazioni sui brand sarebbero noiose e poco coinvolgenti per gli utenti. Kotler è uno dei maggiori sostenitori del fatto che gli hater fanno bene al business.

“Il gruppo dei detrattori è un male necessario che spinge quello degli appassionati ad attivarsi per difendere dalle critiche il brand” (cit. Marketing 4.0: dal tradizionale al digitale)

Le azioni degli hater avrebbero, quindi, un effetto secondario positivo. Perché stimolano i fan dormienti, facendo in modo che prendano attivamente la parola in difesa dei marchi che utilizzano e apprezzano. Si tratta di un risultato molto importante. In quest’ottica gli hater fanno bene al business per davvero, e gratis! Inducendo i clienti soddisfatti a entrare nel circuito dei soggetti che fanno digital PR.

Se qualcuno ti odia il tuo brand funziona

Nel mondo del marketing si ripete spesso che “se non hai nessun hater allora stai sbagliando qualcosa”. È una frase ad effetto sicuramente un po’ abusata, ma realistica. Qualunque azienda che abbia lavorato con costanza e impegno alla propria strategia di brand building, costruendo un marchio forte, sarà impopolare e odiata da qualcuno. Ma potrà opporre agli hater un esercito di clienti fedeli pronti a difenderla su Internet e social network.

Usare gli hater a vantaggio dell’azienda

Gli hater sono fatti per odiare e farli smettere è difficile. La maggior parte delle cose che scriveranno sul conto della società presa di mira saranno infondate o addirittura insensate. Ma talvolta capita che un hater più intelligente degli altri scriva un commento effettivamente utile, che porta in luce una debolezza da affrontare e risolvere per migliorare ulteriormente prodotti e servizi. Questa è un’altra delle motivazioni per cui gli hater fanno bene al business.

Come reagire agli hater?

Quando possibile, come abbiamo sottolineato, è meglio lasciare ai fan il compito di parlare in nostra difesa. Bannare, bloccare, escludere chi posta insulti e nonsense può essere un’arma a doppio taglio. Meglio farlo solo quando si rileva un comportamento fuori dai limiti della legalità.

Quando una risposta dell’azienda è necessaria, meglio reagire con moderazione, senza perdere la calma. Concentrandosi non sugli insulti ricevuti ma sul tema sollevato dall’hater in questione. Talvolta questi individui hanno solo bisogno di essere ascoltati. Ma la cosa importante non è come reagiranno loro a una eventuale risposta: entrando nella discussione in modo pacato e razionale l’azienda darà l’impressione a clienti e potenziali interlocutori di essere nel giusto. Come insegna l’esperto di comunicazione Bruno Mastroianni ne La disputa felice si può “dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico”. E farlo accrescerà brand awareness e brand loyalty, in barba a tutto l’odio degli hater.