Viviamo in un’epoca in cui la fiducia verso le istituzioni, i media tradizionali e persino verso i brand è in costante contrazione. Le persone si fidano delle persone, non dei loghi. E nel contesto aziendale, nessuno incarna la “persona” più di un CEO. Eppure, nonostante questo scenario, il 64% dei CEO globali non è attivo sui social media.
Una cifra che fa riflettere. Non solo per la sua ampiezza, ma per le sue implicazioni strategiche. Perché un CEO che non comunica è un CEO che rinuncia a un asset di valore incalcolabile: la propria voce.
Il CEO come media
Essere attivi sui social non significa semplicemente “esserci”. Significa riconoscere che, nel 2025, la leadership passa anche (e sempre più) dalla comunicazione pubblica. Il CEO è, o dovrebbe essere, il primo ambassador della cultura aziendale. È un canale a sé stante: credibile, influente, umano. E proprio per questo è capace di attrarre attenzione, fiducia e, soprattutto, relazioni.
La comunicazione di un CEO può influenzare direttamente clienti, partner, investitori, talenti e l’intera cultura interna. Può rafforzare la reputazione aziendale o ridefinire il posizionamento del brand. Può anticipare i trend, raccontare la visione, incarnare il cambiamento. In altre parole: può fare la differenza.
Eppure, molti CEO non comunicano. E le ragioni, quando esplicitate, si riducono quasi sempre a due: mancanza di tempo e mancanza di direzione.
“Non ho tempo” non è una scusa accettabile
Un CEO che dice “non ho tempo per comunicare” sta in realtà dicendo che non ne percepisce il valore. Ma se qualcosa genera impatto sul business, allora il tempo si trova – o si delega. Oggi esistono team interni, agenzie e professionisti specializzati proprio per affiancare le figure apicali nella definizione di un tono di voce, di un piano editoriale, di un percorso narrativo autentico. Pensare di dover “fare tutto da soli” è un errore di visione. La leadership si esercita anche attraverso la delega consapevole.
Il punto non è diventare influencer. Il punto è diventare rilevanti. E la rilevanza non si misura in vanity metrics, ma nella capacità di creare connessioni che contano, dentro e fuori l’organizzazione.
I numeri non mentono
Il dato più eclatante arriva dagli Stati Uniti: il 98% dei CEO delle aziende Fortune 500 è attivo su LinkedIn. Non perché siano più vanitosi, ma perché hanno compreso che la loro presenza è un’estensione strategica del brand. E non è un caso che nei settori più innovativi – dal tech alla finanza, dalla sostenibilità alle startup – la comunicazione personale sia diventata una leva di crescita. Si chiama CEO-lead growth, e non è una moda: è un approccio.
I profili C-level attivi crescono mediamente del +16,3% in visibilità e autorevolezza in 4-6 mesi. E ancora: i contenuti pubblicati da figure apicali generano otto volte l’engagement rispetto ai contenuti corporate. L’80% dei lead B2B generati dai social passa da LinkedIn. I numeri parlano chiaro: la comunicazione dei vertici aziendali è un moltiplicatore di risultati.
Casi italiani che funzionano
Anche in Italia ci sono CEO che hanno saputo trasformare la propria presenza online in una leva di posizionamento. Alberto Dalmasso, fondatore di Satispay, mescola visione strategica e storytelling personale in modo naturale. Cristina Scocchia, oggi alla guida di Illycaffè, è riuscita a costruire una presenza capace di generare in media oltre 5.900 interazioni per post. Nerio Alessandri di Technogym è un esempio virtuoso di narrazione orientata a purpose e innovazione, mentre Alessandro Benetton ha saputo reinventarsi con un riposizionamento narrativo tra i più riusciti degli ultimi anni.
Non sono eccezioni, ma modelli da studiare. Tutti accomunati da un elemento chiave: la coerenza. Non si limitano a “pubblicare qualcosa ogni tanto”. Raccontano una visione. Con costanza, autenticità e attenzione alla forma.
Una questione di neuroscienze (e neuromarketing)
La centralità del volto del CEO nella comunicazione aziendale trova conferma anche nella neuroscienza. Secondo Thomas Zoëga Ramsøy, autore di Introduction to Neuromarketing & Consumer Neuroscience, le decisioni di acquisto non sono il frutto di processi razionali, ma di stimoli emotivi e inconsci. La presenza di un volto umano, riconoscibile e autorevole, può influenzare la percezione del valore di un brand molto più di qualsiasi campagna pubblicitaria.
Le neuroscienze hanno dimostrato che i contenuti autentici, umani, empatici attivano circuiti neurali legati alla fiducia e alla memoria emotiva. In altre parole, la comunicazione del CEO – se ben costruita – ha il potere di “imprimersi” nella mente delle persone molto più efficacemente di un messaggio standardizzato.
Leadership è anche comunicazione
Comunicare non è più solo un compito del marketing. È una responsabilità strategica. Oggi più che mai, il posizionamento aziendale passa attraverso la capacità del CEO di raccontare, con lucidità e visione, chi siamo, dove stiamo andando e perché facciamo ciò che facciamo. Questo non significa trasformarsi in testimonial, ma in punti di riferimento.
Essere presenti, oggi, è già una forma di guida. E non esserlo è una scelta che – se non consapevole – rischia di essere penalizzante. Per il leader stesso, e per l’azienda nel suo complesso.
E quindi…
Non serve un piano da cento post. Serve visione, volontà e coerenza. Serve il coraggio di metterci la faccia, anche quando il messaggio non è perfetto. Perché l’imperfezione è umana, ed è proprio l’umanità ciò che oggi fa la differenza nella comunicazione.
Un CEO che comunica non è solo più visibile. È più credibile. E la credibilità è, oggi più che mai, il vero capitale reputazionale.

L’autore
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